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Diario di un giornalista clandestino

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Questo articolo è uscito sul Riformista e racconta la sconcertante parabola umana del giornalista marocchino Rachid Nini, prima immigrato in Spagna e in Italia, poi di ritorno nel suo paese per svolgere una attività culturale di opposizione alle ingiustizie della classe politica e della famiglia reale marocchina. In questo momento si trova in carcere e la sua casa editrice italiana (Mesogea) promuove un appello per la sua scarcerazione.

La parabola umana e intellettuale di Rachid Nini è l’emblema del nuovo Marocco e dei sommovimenti che agitano il Mediterraneo. Alla fine degli anni novanta, quando non ha ancora trent’anni, Nini decide di emigrare in Europa. Vi rimane tre anni, da immigrato irregolare. Lavora nei campi come raccoglitore di arance e pomodori, e nei cantieri come manovale. Nei bar e nei ristoranti. Sempre in nero, senza un permesso di soggiorno e senza un contratto regolare. Fin qui, si dirà, niente di nuovo. Ma la sua è una storia particolare. Prima di approdare in Europa, Nini faceva il giornalista. Non è partito per fame, ma perché la società marocchina in cui era nato e cresciuto gli appariva una società bloccata. Una società divisa in caste, retta da una ristretta e ipocrita élite politico-intellettuale, sotto la cornice della monarchia. La sua scelta di emigrare, maturata oltre dieci anni prima dei recenti rivolgimenti del mondo arabo, mette in luce l’irrequietudine che da tempo agita i giovani del Nord Africa. Soprattutto quelli di città, quelli che hanno studiato e non intravedono alcun futuro.
Dopo tre anni di Francia e Spagna, o meglio dei bassifondi di Francia e Spagna, Nini decide di tornare in Marocco. Si rimette a fare il giornalista, e scrive Diario di un clandestino. Il libro esce prima in Marocco nel 2002 e poi in Spagna. Di recente è stato pubblicato anche in Italia dalla casa editrice Mesogea.

“L’Europa è veramente l’altro capo del mondo”, scrive Nini nel suo Diario. “Non appena passi lo stretto senti che ti sei lasciato alle spalle un mondo per entrare in un’altra epoca.” Ma l’altra epoca non ha le fattezze del mondo luccicante delle merci, bensì quello dei lavori più umili che gli spagnoli (e i francesi, e gli italiani) non vogliono fare più. Lavori da operaio, lavori da bracciante. “Solo i muscoli mi sono serviti nell’infinita distesa di campi, di fronte al peso delle casse che trasportavo fin dalle prime luci dell’alba, contro la resistenza che mi opponeva la betoniera arrugginita”.

Nini vive soprattutto a Oliva, tra Alicante e Valencia. Spiega bene (e forse, per la prima volta in Europa, è un bracciante straniero a farlo) la spirale della clandestinità, quell’intreccio perverso di fragilità e invisibilità: “Non hai il diritto di denunciare che ti sfrutta, ti deruba o ti inganna. Perché sei clandestino. E la tua clandestinità deve rimanere totale fino a quando l’ufficio immigrazione non decide di fare di te un vero cittadino.” Racconta crudamente un mondo lasciato ai margini. Un mondo in cui molti vengono vessati, mentre altri si danno ai traffici più svariati per sbarcare il lunario, o per arricchirsi in fretta. Soprattutto rivela la “psicologia dei barconi”, dei viaggi in cui ci si lascia tutto alle spalle, sperando – una volta arrivati in Europa – di ottenere un bottino. “Ma la cosa veramente ridicola”, scrive, “è che qui non c’è proprio nessun bottino. Per vivere, qui, devi lavorare come un mulo.”

Non sempre cercare di rimanere a tutti i costi, scendendo ancora più in basso nei gironi della clandestinità, è la cosa giusta da fare. A volte bisogna avere il coraggio di rifiutare il limbo europeo, e di ritornare nella società bloccata da cui si è partiti. Ed è proprio quello che Nini fa, dando così inizio alla seconda parte della sua vita.

Tornato in Marocco, si rimette a fare il giornalista. Cura alcune rubriche di successo sui quotidiani. Per alcuni è un giornalista di talento, per molti altri un populista che alimenta l’antipolitica. Oltre a stendere il suo Diario, nel 2006 fonda il quotidiano “Al Massae”, sulle cui pagine le denunce degli scandali del regno sono condotte con una prosa sanguigna. In breve tempo il giornale diventa il quotidiano più letto del paese.

Nini dice di voler scrivere per il popolino e in difesa del popolino. Si atteggia a difensore dei valori morali, spesso assume posizioni conservatrici. Critica questo e quest’altro, con uno stile che è ormai lontano da quello più controllato del suo Diario. Viene anche condannato per diffamazione, dopo aver condotto una campagna omofoba, ma in seguito la pena viene sospesa. Nonostante gli eccessi verbali, le sue proposte di trasformazione dell’autoritarismo marocchino si potrebbero definire moderate. In realtà, non mette mai in discussione la monarchia. Critica la corte, ma non il re.

Poi qualcosa cambia. Quando agli inizi del 2011, la primavera araba varca i confini della Tunisia per giungere in Egitto e poi, con diverse conseguenze, in Libia, il vento del cambiamento soffia anche in Marocco. Il 20 febbraio un’imponente manifestazione, cui partecipano tutte le forze di opposizione, chiede maggiori aperture. Pochi giorni dopo, Nini scrive un editoriale e lo intitola Che fare?. “Quello che sta accadendo intorno a noi nei paesi del Medio Oriente e in Nord Africa”, scrive, “dovrebbe convincerci che il Marocco si trova a un bivio. O scegliamo la via della democrazia ammettendo l’urgenza reale delle riforme, accettiamo le differenze all’interno del paese e ci prepariamo a gestirle – come richiesto dalle norme universali della democrazia – oppure percorriamo la via del ristagno e della fossilizzazione, e di conseguenza esponiamo il Marocco a un gioco d’azzardo non esente da gravi rischi.”

Il 29 aprile viene arrestato con l’accusa di “disinformazione” per aver denunciato la corruzione di Fouad Ali El Himma, uno stretto collaboratore del re. Ma quelli che il governo non manda giù sono soprattutto gli articoli contro la Direzione di sorveglianza territoriale, i servizi segreti marocchini. Quasi oltrepassando una linea che fino ad allora non aveva varcato, Nini chiede (questa volta a ragione) che siano posti sotto il controllo del parlamento. Denuncia gli abusi compiuti contro gli islamisti accusati di terrorismo; e, in particolare, la creazione da parte dei servizi del centro di detenzione di Témara, vero e proprio non-luogo segreto, al di fuori del diritto.

Alla fine di un processo durato 43 giorni, Rachid Nini viene condannato a un anno di carcere e al pagamento di una multa di 100 euro per “aver oltraggiato le decisioni giudiziarie” e denunciato “crimini che non si sono mai verificati”. Rimane in carcere. Più volte i suoi legali hanno chiesto che gli venisse concessa la libertà vigilata, ma il tribunale di Casablanca finora si è tenacemente opposto.

Oppositore o vittima di un sistema di cui egli stesso, in fondo, è parte? Nonostante l’ambiguità del personaggio, la condanna allarma l’intero mondo del giornalismo marocchino. Per Amnesty International, Rachid Nini è un prigioniero di coscienza, “condannato per aver criticato pacificamente le autorità marocchine”. Sul sito della casa editrice Mesogea è possibile firmare un appello per la sua liberazione e per la libertà di stampa in Marocco. La sua vicenda è comunque sintomo delle fibrillazioni che scuotono il paese, a due passi da altre primavere.


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